13 gennaio
Battesimo del Signore

In breve

Isaia 40,1-5.9-11: «Consolate, consolate il mio popolo».

Missione profetica come mandato a esercitare il ministero della consolazione.

Salmo 103: «Tutti da te aspettano che tu dia loro il cibo a tempo opportuno».

La tenerezza di Dio si manifesta come attenzione al bisogno di ciascuno. L’annuncio della salvezza inserisce i credenti nel grande fiume della tenerezza di Dio, e li rende a loro volta attenti e solleciti per i fratelli.

Tito 2,11-14;3,4-7: «È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini».

La salvezza è per tutti gli uomini. L’annuncio trova le sue radici nell’ampiezza del progetto di Dio.

Luca 3,15-16.21-22: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

Facendosi battezzare insieme ai peccatori, Gesù estende la stessa possibilità di essere amati dal Padre ad ogni uomo. Il Padre stesso è il primo annunciatore del Figlio.

L’annuncio della consolazione

Nel capitolo 40 del libro di Isaia, al popolo schiavo e umiliato, privato della sua terra, viene proclamata la consolazione di Dio. L’annuncio della consolazione precede l’effettivo ritorno, l’effettivo possesso della terra promessa. La via per ritornare a Sion non è tanto quella di una riconquista violenta, ma di una ritrovata accoglienza della presenza di Dio. A partire dall’annuncio si generano possibilità nuove. “Sali su un alto monte… alza la voce con forza…”: il brano profetico si compone di un continuo invito a portare un lieto messaggio. La situazione che si configura è quella di un annunciatore che cerca di coinvolgere altri annunciatori. Fin dall’inizio egli grida, a nome di Dio, “consolate, consolate il mio popolo”. Al termine viene consegnato un messaggio a colui che porta liete notizie a Sion, perché lo estenda a tutte le città di Giuda. Nella sezione centrale abbiamo invece una “voce” che grida, e che invita a preparare la via al Signore. Questa voce non identificata con un profeta è simile alla voce del Padre nel Vangelo, che invita a riconoscere e ad ascoltare il Figlio. La voce di Dio è in cerca di annunciatori che facciano da eco, che la riportino, la ripetano, la diffondano.

Battezzati ed evangelizzatori

Tutti i battezzati sono per ciò stesso annunciatori. Divenuti figli di Dio, in maniera esplicita e consapevole, sono chiamati a mostrare la loro appartenenza a Cristo. In passato si è spesso insistito sulla dimensione personale della testimonianza; sull’importanza per ogni individuo di riappropriarsi dell’evento del battesimo ricevuto, con con tutto ciò che questo comporta; sarebbe tuttavia fuorviante concentrarsi unicamente su se stessi, come se da soli si fosse effettivamente capaci di testimoniare la grazia di Cristo, l’eroismo delle proprie virtù, la forza che deriva dallo Spirito. Il pieno risveglio dell’identità battesimale, con tutto il suo potenziale esplosivo di annuncio, di testimonianza, di trasformazione delle strutture di ingiustizia presenti nel mondo, si ha quando si avverte anche la sua dimensione comunitaria. Lo Spirito che nel Battesimo ci restituisce all’originaria amicizia con Dio, nello stesso tempo ci lega alla comunione con i fratelli. Solo insieme a loro è possibile dare una testimonianza completa. Tanto più in un contesto storico-sociale in cui, sotto la maschera e il trucco dell’individualismo, si nasconde la massima rete di interdipendenza che sia mai stata presente nella storia.

Se guardiamo al brano evangelico, Gesù nel Battesimo costituisce un ambito di fraternità. Nella narrazione lucana si specifica che “tutto il popolo era stato battezzato”. Il battesimo di Gesù avviene in un contesto specificamente comunitario. La voce del Padre e la presenza dello Spirito confermano Gesù come Figlio amato, che è in grado di abbracciare una moltitudine di fratelli. Tutto lo sforzo evangelizzatore di Gesù a partire dal Battesimo è mirato a risvegliare anche una consapevolezza comunitaria, che partendo dai suoi discepoli coinvolge tutto Israele, anche i peccatori, attraverso l’annuncio scandaloso della misericordia.

Un popolo puro che gli appartenga

La seconda lettura conferma il quadro evangelico: lo scopo del dono di amore di Cristo è “costituire un popolo puro che gli appartenga”. Esso si distingue per lo “zelo nelle opere buone”. Ma si noti bene che un simile zelo è un frutto, non una radice. La costituzione di una comunità credente non è il risultato di sforzi troppo  umani, di espedienti psico-sociologici, di trame politiche. Dio ci salva e ci costituisce in una comunità di fratelli e sorelle “non per opere giuste da noi compiute”, ma “per la sua misericordia”. Con gli strumenti solo umani si può costituire un club, un’associazione, una setta, eventualmente una nazione o anche un movimento rivoluzionario, si possono manipolare i pensieri di milioni di consumatori… ma non si può costituire la fraternità dei credenti.

Battezzati nello Spirito

Anche l’annuncio del Battista mette in evidenza la differenza qualitativa tra il “battesimo d’acqua” e il “battesimo in Spirito Santo e fuoco”, tra il segno di conversione che egli pone e la radicale novità portata da colui che è “più forte” di lui. C’è una relazione di anticipazione, di preparazione tra le due realtà; ma è necessario anche che il Precursore si tiri indietro di fronte al Salvatore. Allo stesso modo anche noi saremo ben disponibili ad essere, a modo nostro, precursori di Cristo e della sua grazia; ma sapremo  anche tirarci indietro, per lasciare che le persone possano arrivare a Cristo.

6 gennaio
Epifania del Signore

In breve

Isaia 60,1-6: «Cammineranno i popoli alla tua luce».

La gloria del Signore che si manifesta in Gerusalemme è significativa e polo di attrazione per tutti i popoli.

Salmo 71: «Lo servano tutte le genti».

La gioia del regno messianico trabocca e si espande anche ad altri popoli, idealmente tende a raggiungere e affascinare tutte le genti.

Efesini 3,2-3.5-6: «Partecipare alla stessa eredità, formare lo stesso corpo».

L’unità nello stesso corpo non è un’utopia da realizzare, ma una realtà già disponibile, che Cristo ha già realizzato in sé stesso, accessibile a coloro che lo cercano.

Matteo 2,1-12: «Alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme».

I Magi partono, Erode, i sacerdoti, gli abitanti di Gerusalemme restano fermi. Abbiamo noi il coraggio di uscire, fidandoci dei segni della venuta di Dio?

L’annuncio che risplende per il mondo

“Alzati, rivestiti di luce”: la parola profetica rivolta a Sion la invita a trasformarsi in un segnale luminoso. Gerusalemme mostra a tutti i popoli lo splendore che le viene da Dio.

L’arroganza e l’orgoglio avevano degradato Sion a città del disordine prima, ed esempio di rovina e fallimento poi; la grazia divina la trasforma in luce: la gloria di Dio, che brilla su Gerusalemme, la trasfigura, la abilita a trasmettere a tutti i popoli il messaggio della grazia.

Con grande lucidità e lungimiranza nel libro di Isaia il ruolo di Gerusalemme come faro dei popoli è visto come già attuabile. Da subito Gerusalemme è invitata a rivestirsi di luce, perché i popoli possano cominciare a muoversi verso di lei. Notiamo il contrasto tra il fiducioso comando del profeta nella prima lettura, e l’atteggiamento diffidente e sconcertato di Erode e degli abitanti di Gerusalemme. Da un lato essi si sentono, giustamente, depositari delle Scritture, eredi della promessa divina; dall’altro, non sanno interpretare la venuta dei Magi come il segno che quelle promesse si stanno compiendo.

Falsa mondialità, falsa globalizzazione

Erode e gli abitanti di Gerusalemme hanno in mano la chiave di comprensione di ciò che sta accadendo: a Betlemme nascerà il Salvatore. Quasi con indifferenza la consegnano ai magi: il loro cuore sembra chiuso a quella parola che pure annunciano. Anche nel nostro tempo sta accadendo qualcosa del genere: da anni si sta vedendo una crescente interrelazione tra tutti i popoli, tra tutte le parti del mondo. Il fenomeno è chiamato con il nome di globalizzazione, e si riconosce che esso non può reggere  senza una crescita anche nella democrazia, nella giustizia, nella pace tra i popoli. Con grande incisività papa Francesco parla di una globalizzazione della solidarietà. Purtroppo, però, non sta crescendo la pace, non sta crescendo la democrazia, nuovi conflitti sempre più feroci sembrano dilagare tra i popoli. L’euforia di profitti sempre crescenti su scala mondiale si dilegua: se il guadagno è solo per alcuni, lasciando esclusi gli altri, il processo non è più così conveniente. I Magi mostrano la vera ricerca della verità, che è molto simile alla vera ricerca della giustizia e della pace: non è delegabile ad altri, è un impegno personale, non è possibile incamerare tutti i guadagni e scaricare su altri le perdite. Fidandosi della stella, essi devono  uscire dal loro paese, entrare in dialogo con un popolo lontano, sopportare con pazienza gli intoppi nel loro cammino. Solo alla fine sperimentano la gioia della riuscita, e si accorgono del tremendo pericolo dell’inganno di Erode.

Il mistero del bambino e delle genti

La ricerca dei Magi mostra l’importanza di quel bambino che è nato. Da subito, prima ancora di poter agire, il bambino è punto di attrazione per tutti i popoli, segno di una speranza destinata a crescere. Il simbolo della stella, simbolo cosmico visibile da lontano, indica che per tutto il mondo la sua nascita ha un significato speciale, riconoscibile da tutti. Il mistero del bambino, pazientemente decodificato dai Magi, è apertamente svelato nel brano della lettera agli Efesini, proclamato nella seconda lettura.

In che cosa consiste esattamente il mistero? È possibile dare una lettura riduttiva, per cui ciò che accade è solamente una estensione ai popoli di una realtà che era già di Israele: “le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità”. Potremmo dunque intendere questa chiamata come un fatto puramente quantitativo: ciò che era di pochi, ora viene aperto a molti. Il seguito del testo ci orienta verso una novità di ordine diverso, qualitativo: “a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo”. Non si tratta dunque solo di un’apertura numerica: “in Cristo” si è instaurata una nuova realtà, di ordine qualitativo, che coinvolge sia Israele, sia le genti: essere parte “dello stesso corpo”.

Partecipare, non solo entrare

Infatti non si parla solo di “entrare”, ma di “partecipare”, di prender parte nel senso forte del termine: si viene trasformati in qualcosa di diverso, si viene identificati in una nuova realtà. Essa non è pensata come qualcosa di lontano, che dovrà accadere un giorno, ma come una realtà che “in Cristo” è già compiuta, è già operativa: attraverso il Vangelo diviene possibile essere incorporati in essa.

Per la Passione di Gesù le genti sono già dentro l’eredità di Israele; sono già unite al corpo di Cristo, sono già partecipi della promessa; manca solo l’adesione esplicita e consapevole, l’accoglienza piena del dono.

Perciò i credenti sono invitati ad aprirsi al mondo, ad abbandonare tutti i fattori di indurimento, di fissazione, di rigidità, che impediscono di accedere alla vitalità del corpo di Cristo, e di trasmetterla ad altri. Solo chi accetta di compiere un simile passaggio, può annunciare il Vangelo che permette di essere associati a Cristo.

Il movimento è duplice: la Chiesa è chiamata ad uscire, accompagnare, entrare in dialogo con il mondo; ma anche il mondo è chiamato allo stesso movimento di rottura di abitudini inveterate, di abbandono delle strutture non più rispondenti alla loro funzione dichiarata, delle leggi troppo manipolabili a favore dei più forti. La cosa è impossibile restando nella prospettiva puramente mondana: difficilmente chi si è costruito e ha acquisito privilegi sarà disposto a rinunciarvi senza difficoltà. Il ruolo della Chiesa può essere proprio quello di chi dà la spinta a un rinnovamento, di chi aiuta a ritrovare il senso e la semplicità originari.

1 gennaio
Maria SS. Madre di Dio

In breve

Numeri 6,22-27: «Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».

Attraverso l’azione liturgica dei figli di Aronne, il nome di Dio è invocato sul popolo, ed esso può sperimentare la benevolenza di Lui.

Salmo 66: «Dio abbia pietà di noi e ci benedica».

Il salmo riprende lo stesso dinamismo della benedizione presente nella lettura, visto dalla parte del popolo e in prospettiva universale: partendo da Israele la benedizione viene condivisa con tutti i popoli.

Galati 4,4-7: «Quindi non sei più schiavo, ma figlio».

Permane ai nostri giorni la tentazione di ritornare schiavi: purché il padrone a cui ci si sottomette garantisca sicurezza e benessere e una parvenza di libertà. Coloro che nel battesimo hanno piena coscienza di essere divenuti figli, sono per tutta l’umanità un segno di pace e autentica liberazione.

Luca 2,16-21: «Trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia».

Maria e Giuseppe sono già immagine della Chiesa: una Chiesa accogliente, una Chiesa povera ma attenta ai piccoli, una Chiesa contemplativa e missionaria insieme, verso cui possono convergere gli umili di Israele e tutti i popoli della terra.

Accogliere e diffondere benedizione

Israele è il popolo che crede nel Dio unico, unico autore del creato, unico Signore della storia e del tempo, unico donatore clemente e benevolo. Gli altri popoli invocano invece una moltitudine di divinità, ciascuna che presiede ad un ambito specifico dell’esistenza, talvolta in conflitto tra loro. L’esperienza religiosa di Israele introduce dunque nell’umanità la possibilità di una prospettiva profondamente unificata sull’esistenza: unico è il Dio che dona la benedizione, unica è la possibilità di autentica felicità (in ebraico: shalom, pace) per la creatura umana. La ricerca della riuscita nel lavoro, nell’armonia familiare, nelle buone relazioni sociali, nella pace con Dio, tende verso l’unità.

Ti lodino i popoli tutti

Il salmo riprende le parole della benedizione, inserendole in quella che sembra una composizione musicale con ritornello. Nel ritaglio liturgico del salmo, il procedimento non risulta del tutto evidente, ma è chiaro il dinamismo di fondo: da un lato si invoca il compimento della promessa fatta ad Israele, dall’altro si espande la richiesta di benedizione coinvolgendo tutta la terra: “Ti lodino i popoli tutti”. Secondo la prospettiva biblica, Israele è fattore di benedizione per tutte le genti. Non sempre la consapevolezza della sua missione si è attuata a livello politico e sociale, ma certamente è stata coltivata nella profezia e nella preghiera costante. Attraverso il popolo di Dio non solo si diffonde un esempio e una conoscenza, ma si ha come un centro di irradiazione, un fuoco, una luce che raggiunge tutti. Il popolo che sa accogliere la benedizione integrale di Dio diviene un faro per tutte le genti.

Benedetta tra tutte le donne

A partire da Gesù, figlio di Maria – colei che è “benedetta tra tutte le donne”, secondo l’esclamazione di Elisabetta – l’accoglienza della benedizione divina acquista un’ulteriore profondità. Gesù resta profondamente identificato nell’esperienza di Israele, ma fa compiere un ulteriore passaggio nella relazione con Dio: la benedizione si configura come figliolanza divina, offerta a tutti gli uomini, capace di abbracciare perfino le esperienze negative, di dolore e sofferenza, che sono trasfigurate dalla forza della sua croce. Il dinamismo della croce e risurrezione è già operante nella sua incarnazione, nel suo farsi piccolo. Da subito diventa motivo di attrazione e di speranza.

Il nucleo della Chiesa

Il Vangelo ci fa di nuovo contemplare la scena della visita dei pastori alla mangiatoia. Noi parliamo di grotta o di capanna, ma l’unico dettaglio che l’evangelista riporta è quello della mangiatoia, non dell’ambiente in cui era collocata. Non importa l’edificio: il primo nucleo della Chiesa è costituito da persone: Maria, Giuseppe, il bambino Gesù. Non si parla di nessuna proprietà, se non dell’uso di un oggetto, il minimo indispensabile per provvedere decorosamente al bambino. L’elemento essenziale che caratterizza la piccolissima comunità originaria è l’accoglienza e l’esercizio della carità. Giuseppe accoglie e protegge Maria; insieme essi accolgono e proteggono con tenerezza il bimbo donato a loro e al mondo; il bimbo a sua volta è manifestazione dell’amore divina che a partire da Maria e Giuseppe coinvolge e attrae tutto il mondo.

Una comunità contemplativa

Maria “custodiva tutte queste cose”. Fin dall’inizio la dimensione contemplativa è individuata come essenziale, assieme alla cura concreta e fattiva del bambino. La sua condizione non richiede solo che Egli sia avvolto in fasce, deposto in un luogo adatto, vegliato con amore: nella sua presenza c’è un mistero che deve essere custodito, attorno a lui accadono eventi che rimandano a qualcosa di molto più grande, che solo nel tempo potrà essere compreso.

Una comunità missionaria

Nonostante la sua precarietà e fragilità, la prima comunità costituita a Betlemme è già missionaria. Il semplice fatto di custodire il bambino è il modo, per Maria e Giuseppe, di essere missionari. Essi hanno già compiuto la loro uscita: Maria si è messa a disposizione come “serva del Signore”; Giuseppe ha rinunciato ai suoi progetti, per prendere con sé la sposa e il bimbo che è in lei, che viene dallo Spirito.

La presenza di Gesù in mezzo a loro è fonte di attrazione. I pastori, i primi che arrivano, cominciano da subito ad annunciare a loro volta il Vangelo.

Nella liturgia del primo giorno dell’anno, siamo invitati anche a riflettere sullo scorrere del tempo e sulla grande esigenza della pace. Si tratta di temi in evidente sintonia con la missione della Chiesa: accogliere la benedizione, restituirla a tutte le genti. Il giorno di festa ricorda che soprattutto all’interno della liturgia si compie la trasfigurazione del tempo, l’offerta della quotidianità a Dio, perché sia davvero esperienza di benedizione. Allontanarsi da Dio significa allontanarsi dalla benedizione, allontanarsi dalla pace. La preghiera è dunque il primo servizio e la prima grande testimonianza che la Chiesa offre al mondo. In essa si mostra come è possibile sottrarre l’uomo alla voracità di piacere, successo, risultato, alla paura della perdita, per costituire un ambito di fraternità e di pace.

30 dicembre
Santa Famiglia

In breve

1 Samuele 1,20-22.24-28: «Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto».

La famiglia è luogo di miracoli quotidiani, di accoglienza della misericordia di Dio, di esercizio della carità verso i più vicini.

Salmo 83: «Beato chi abita nella tua casa».

La forza di costruire una famiglia proviene da Dio.

1 Giovanni 3,1-2; 21-24: «Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui».

L’osservanza dei comandamenti qui non è vista come il frutto di uno sforzo personale, ma di un dimorare costantemente nella benevolenza di Dio.

Luca 2,41-52: «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia».

L’incarnazione non ha solo un aspetto statico, ma implica un dinamismo, una trasformazione, un progredire. Accettando di farsi uomo, il Verbo accetta di entrare in un processo di crescita.

Il dono di un figlio

Nella prima lettura ascoltiamo come Anna, una donna sterile, divenga feconda. Colei che soffriva per la sua condizione, sperimenta la gioia della maternità. Anna diviene madre non per un diritto, ma per un dono che proviene da Dio. La sua vicenda è esemplare per ogni maternità, così come per tutte le relazioni familiari: esse restano sempre un dono, non un diritto, anche quando sono ragionevolmente prevedibili e calcolabili secondo le leggi biologiche, anche quando sono regolate ed esigibili in base alle leggi umane e alla legge di Dio. Il genitore ha un diritto sul figlio: ma il figlio resta un dono, non una sua proprietà. Marito e moglie possono aspettarsi reciprocamente rispetto e attenzione, ma nello stesso tempo scoprono quotidianamente che si tratta di realtà che appartengono alla sfera del dono, non dello scambio.

Possibilità del dono

Anna riceve una grazia da Dio, sperimenta la sua misericordia. Ma in che cosa consiste il dono da lei ricevuto? A ben vedere, esso non è altro che la possibilità di donare a sua volta: Anna può esercitare la misericordia come madre. Il dono consiste nella possibilità di donare. Ma nello stesso tempo il dono della maternità comporta una obbligazione, un dovere: una volta divenuta madre, Anna deve donarsi al figlio, con tutta sé stessa. Il desiderio viscerale della maternità, che si traduce poi in amore viscerale per il figlio, è chiamato a diventare consapevole, solido, fedele, realistico: altrimenti non è vero amore, ma un impulso indistinto che potrà facilmente rovesciarsi nel suo contrario.

L’esplosione del dono

Anna ridona il bambino al tempio, perché possa aiutare il suo popolo. Il bambino, ricevuto per grazia di Dio, viene consacrato a lui. Non è un atto dovuto: è un dono che nasce dal profondo, una scelta meditata e consapevole. Anna, nella sua esperienza di sofferenza e desiderio, ha compreso che tutto nasce dal dono di Dio, e perciò tutto deve ritornare a lui. Una volta entrata nel circolo del dono, Anna non ne esce: il piccolo Samuele, richiesto a Dio e ridonato a lui, diventerà il giudice e il salvatore del suo popolo. Riceve il dono della chiamata profetica, e lo esercita  come un ministero per il bene di tutti. Se proseguiamo la lettura del racconto biblico, troveremo a un certo punto, quasi di sfuggita, l’affermazione che “i figli di lui non camminavano sulle sue orme” (1 Samuele 8,4). La circolazione del dono si è interrotta. Può accadere anche oggi: i figli non camminano sulle orme dei padri e delle madri che li hanno generati alla vita e introdotti alla fede. Il dono ricevuto può non essere accolto. O può non essere rimesso in circolo: a lungo andare però se ne vedranno le conseguenze.

Educare un figlio

Per quanto sia limpido lo sforzo educativo, l’esempio profuso da figure autorevoli, il desiderio di genitori illuminati, è sempre possibile che i figli rifiutino la fede in cui sono stati educati. A volte per un breve periodo di tempo, a volte per tempi molto più lunghi.

Più spesso accade però che nel processo educativo emergano i vuoti dei genitori. Un attento discernimento rivela che esiste un istinto materno, un desiderio di paternità, una tensione romantica alla relazione di coppia che non arrivano al vero amore: materno, paterno, sponsale… ci si ferma all’aspetto immediato, istintivo, a volte anche superficiale, senza arrivare alla completezza e alla consapevolezza. Non possiamo giudicare semplicisticamente, solo per condannare. La prova dell’educazione finirà sempre per rivelare i limiti e le manchevolezze anche del miglior padre, della miglior madre possibile. Probabilmente non è un male: al contrario, è il passaggio decisivo. Come avviene nel brano evangelico, per Maria e Giuseppe.

Al di là dei limiti, la presenza del Padre

Maria e Giuseppe scoprono il loro limite di genitori: si illudono forse di poter educare Gesù secondo le loro consuetudini, immaginano che egli si lasci semplicemente trascinare nella carovana dei parenti e conoscenti. Ma esiste un segreto, una profondità, in Gesù, che non si lascia ingabbiare nelle loro consuetudini, nella pur buona usanza di recarsi a Gerusalemme per le feste principali. Il suo posto è nel tempio, a dialogare con gli esperti della Legge, ad occuparsi delle cose del Padre. Maria e Giuseppe non lo immaginavano: la loro genuina, viscerale angoscia (che è propria di una buona coppia di genitori che hanno smarrito il figlio) si incontra con una consapevolezza superiore. Ma così accade ad ogni genitore: il segreto, il mistero del figlio supera ogni pensiero, ogni manipolazione che si è tentati di imporre. In questo caso addirittura il segreto di Gesù, perduto e ritrovato dopo tre giorni, è già il mistero pasquale. Per dare compimento alla Legge, per compiere totalmente la volontà del Padre, Gesù dovrà morire e poi risorgere. Maria e Giuseppe non capiscono: da educatori, divengono discepoli.

Il ritorno a casa

Perché allora Gesù ritorna a casa? Che senso ha la sua presenza a Nazaret, quando si è già aperta la possibilità di affermarsi a Gerusalemme? Seguendo la grande intuizione di Charles de Foucauld, possiamo considerare la vita nascosta a Nazaret come fondamentale educazione di Gesù. A Nazaret Gesù impara quello che non può apprendere dai dottori della Legge, nello studio al tempio. Luca dice che “stava loro sottomesso”. Proprio nella sottomissione di Gesù sta il segreto di Nazaret: Gesù non solo impara, ma per trent’anni circa vive sulla sua pelle il “farsi piccolo”, l’obbedienza, il confronto con una realtà fatta di cose, non di libri.

25 dicembre
Natale del Signore

In breve

Messa vespertina nella vigilia

Isaia 62,1-5: «Il Signore troverà in te la sua delizia».

Salmo 88: «Gli conserverò sempre il mio amore, la mia alleanza gli sarà fedele».

Atti 13,16-17.22-25: «Il Dio di questo popolo d’Israele scelse i nostri padri e rialzò il popolo durante il suo esilio in terra d’Egitto».

Matteo 1,1-25: «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».

Messa della notte

Isaia 9,1-6: «Ci è stato dato un figlio».

La misericordia dell’Infinito e Onnipotente si manifesta in un bambino: un piccolo che ama con la profondità dell’amore stesso di Dio, erodendo il potere dei simboli di guerra.

Salmo 95: «Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza».

Tito 2,11-14: «È apparsa la grazia di Dio per tutti gli uomini».

Luca 2,1-14: «Sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

Gli uomini che accolgono la benevolenza di Dio sperimentano la sua pace. Una pace pervasiva perché aperta a tutti; sembra essere invece esclusiva, perché pochi sono disposti a pagarne il prezzo.

Messa dell’aurora

Isaia 62,11-12: «Tu sarai chiamata Ricercata, Città non abbandonata».

Salmo 96: «Annunciano i cieli la sua giustizia».

Tito 3,4-7: «Ci ha salvati per la sua misericordia».

La misericordia è qui contrapposta alle “opere da noi compiute”. Il dono di Dio ci precede e ci sorprende sempre.

Luca 2,15-20 «Trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia».

Messa del giorno

Isaia 52,7-10: «Il Signore ha consolato il suo popolo».

Salmo 97: «Cantate al Signore un canto nuovo».

Il frutto dell’accoglienza della misericordia è la gioia comune, condivisa, manifestata anche con segni visibili, incarnati.

Ebrei 1,1-6: «Molte volte e in diversi modi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti».

Giovanni 1,1-18: «La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo».

Annunciare la gioia in un mondo di guerra

Consideriamo i simboli di guerra e oppressione della prima lettura della Messa della notte: il giogo, la sbarra, il bastone del sorvegliante, la calzatura militare rumorosa e spaventosa, il mantello segnato dal sangue. Tutto viene abbandonato, spezzato, reso inutile. Il profeta ha il coraggio di classificare come spazzatura ciò che i potenti ritengono vantaggioso, ciò che i sudditi temono, tremando di spavento. L’annunciatore della salvezza non si lascia spaventare. L’amore di Dio, nella sua pazienza e larghezza d’animo, è più forte di tutte le armi.

Consideriamo i simboli di guerra e discordia che abbondano nelle prime pagine dei giornali, nei titoli di testa dei telegiornali. Potremmo indovinare con mesi di anticipo che verso Natale scoppierà qualche polemica, non si spegneranno i conflitti, potrebbe emergere qualche scandalo. Corruzione, commercio di armi, litigi tra le forze politiche. Noi che cosa possiamo fare? Forse potremmo imparare dal profeta: girare pagina e spegnere lo schermo. Merita più attenzione il bambino che nasce anche oggi, nel nostro mondo. Il lieto messaggio della salvezza merita più attenzione dei segnali di guerra.

Il segno della tenerezza di Dio

“Un bambino è nato per noi”: il segno della benevolenza di Dio è un figlio che nasce. L’esegesi fa intuire e ipotizzare che al tempo del profeta quella nascita doveva avere un significato particolare: probabilmente si trattava della nascita dell’erede al trono, forse avvenuta in circostanze difficili. La forza provocatoria della profezia resta intatta: il profeta infatti non celebra le imprese militari, distoglie l’attenzione dai fattori socio-economici, non si unisce al coro lamentoso di chi si preoccupa del futuro: riconosce invece che in quel bambino Dio manifesta la sua potenza, aprendo la strada alla pienezza della rivelazione. La profezia mostra lo stile dell’agire di Dio, che preferisce affidare la sua azione di salvezza a un bimbo, piuttosto che a un esercito, che preferisce partire da ciò che è umile e piccolo, suscitando una rinascita, piuttosto che devastare e condannare.

Intimità e discrezione

Gli evangelisti circondano di intimità e discrezione la narrazione della nascita di Gesù. Matteo la cita di passaggio, senza soffermarsi, per narrare subito la visita dei Magi. Luca, dopo l’ampia digressione sul censimento, procede per sottrazione, limitandosi a due righe di testo e sottolineando tre dettagli. Il primo è il verbo “compiersi”. Dicendo “si compirono per lei i giorni del parto” allude ad un più ampio compimento: le promesse e la storia di Israele sono giunte alla loro realizzazione. La seconda sottolineatura riguarda il fatto che Gesù è il “primogenito”. Stranamente, nella Bibbia i primogeniti di rado sono i prescelti. Giacobbe, Davide, Salomone… sono tutti scelti tra i figli minori, per elezione divina, non rispondendo alla logica umana della primogenitura. Nella Legge però abbiamo una sezione importante che li riguarda, quando si parla del riscatto: il primogenito è consacrato a Dio (Es 13,11-16). Un’altra citazione importante è in Zaccaria 12,10: “faranno il lutto come per un primogenito”. La valorizzazione del primogenito avviene nel contesto dell’offerta a Dio (ricordato poi in Lc 2,23) e nell’oscura previsione di un evento luttuoso, che precede la definitiva redenzione di Gerusalemme. L’evangelista sembra alludere al fatto che Gesù è quel primogenito, pienamente offerto a Dio, pienamente coinvolto nella redenzione del suo popolo, fino alla morte. Infine, l’ultimo dettaglio su cui l’evangelista sofferma la nostra attenzione è la cura con cui il neonato è avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. Il primo atto che si ricorda dopo la nascita è la tenerezza materna di cui è circondato il bimbo Gesù. Nell’intimità della relazione tra madre e figlio la misericordia divina si fa presente al mondo, ed è accolta e corrisposta.

Il segno dell’amore del Padre

Ciò che i profeti avevano annunciato da lontano, si realizza in Gesù. Da subito egli è il segno dell’amore del Padre. Ma come può un bimbo, nella sua fragilità, essere il segno dell’infinita carità? Le parole dell’evangelista Giovanni ci mettono sulla strada: “E il Verbo si fece carne”; “la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo”. Il semplice fatto dell’incarnazione è già evento di amore; vale a dire, la semplice presenza di Gesù è già presenza di amore. Può amare un bambino? In una mentalità riduttivamente tecnologica, tesa a misurare la rendita, a calcolare ogni possibile guadagno, siamo portati a dire che un bambino può essere amato, ma non può amare. Gli è preclusa ogni operatività, si dubita della sua effettiva consapevolezza. Non può essere una “risorsa umana”. Può tutt’al più essere un richiamo mediatico, come quando la possibilità di filmare e fotografare il figlio di una coppia reale o della star di turno viene venduta in esclusiva: anche così non è un soggetto, ma un oggetto da riprendere e rivendere.

Un bambino che può amare

Noi riteniamo invece che da subito un bambino possa amare, rivelandoci gli aspetti più profondi della carità e della misericordia. Egli è già una persona unica, non comparabile a nessun’altra sulla terra, con una propria dignità. Da subito percepisce i legami che lo stringono ai genitori, alle persone amiche; da subito comincia a corrispondere attivamente, protendendosi verso la consapevolezza e la coscienza. La sua fragilità chiede di essere protetta e custodita; ma non gli impedisce di donare amore. Divenendo un bimbo indifeso, Gesù invita a riconoscere la dignità umana dei piccoli, dei malati, di chi sembra aver perso la coscienza, di chi sembra non avere più nulla da dare in termini di efficienza e produttività: ciò però equivale a riconoscere che anche essi possono amare, essere soggetti di misericordia, e non solo riceverla.

Privilegiare l’umiltà

Lontano dai riflettori, dunque, lontano dalle dinamiche del potere e della fama, il bambino Gesù viene al mondo. Una nuova gerarchia di valori si profila: le mani amorevoli e le fasce della madre sono più importanti del censimento di Cesare. La visita di alcuni semplici pastori è rilevante come quella dei Magi. È interessante notare che vanno a trovare Gesù solo coloro che ascoltano la voce degli angeli (nel Vangelo di Luca) e coloro che guardano i segni delle stelle (nel Vangelo di Matteo). Anche oggi trovano Gesù coloro che si fidano dei segni, del sussurro con cui Dio si rivolge a noi. Coloro che si fidano della sua Parola, che si lasciano educare dal simbolismo della liturgia, che non si adeguano alla gerarchia di valori del mondo.

23 dicembre
IV domenica di Avvento

In breve

Michea 5,1-4a: «Egli stesso sarà la pace!».

La pace desiderata non è uno sviluppo, un progresso sociale, un’impresa titanica: si identifica in una persona, nella presenza speciale di Dio.

Salmo 79: «Proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte».

La salvezza è ormai prossima, il pastore d’Israele protegge e salva il suo popolo.

Ebrei 10,5-10: «Siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre».

Ciò che salva è il corpo, l’umanità di Gesù. Non un ideale astratto. Gesù è più che un progetto politico.

Luca 1,39-45: «Appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo».

Nel saluto di Maria, attraverso la forza dello Spirito, Elisabetta e suo figlio ricevono una prima anticipazione del Vangelo.

 

La vera pace

“Egli stesso sarà la pace!”, dice il profeta, sotto l’azione dello Spirito. Parla così perché conosce bene lo spettro della guerra e dell’infelicità; parla così perché si rivolge ad un popolo che ha subito l’oltraggio della violenza. Partendo dall’esperienza del profeta e dei suoi contemporanei, lo Spirito conduce a riconoscere che la pace non potrà essere portata né da circostanze economiche favorevoli, né da alleanze con i potenti della terra, né da un’accresciuta potenza militare. Si annuncia una pace che si identifica con una persona, con l’inviato, l’eletto di Dio.

Personalità ambigue

Non si tratta di un desiderio esclusivo di Israele, né di un’intuizione esclusiva del profeta. I grandi dittatori hanno sempre sfruttato l’istintivo desiderio di sicurezza delle masse, e la loro tendenza a identificarsi in un personaggio ritenuto autorevole e degno. Solitamente poi, una volta conquistato il potere, i dominatori delle masse si sono sempre rifatti agli istinti peggiori: desiderio di conquista, orgoglio nazionale, fanatismo razziale, fanatismo religioso. Dopo la seconda guerra mondiale, dopo la caduta del muro di Berlino, sembrava impossibile tornare all’idolatria del capo. Ma molti segnali indicano il contrario: la comunicazione mediatica internazionale si concentra prevalentemente e acriticamente sui leader, le antiche ideologie si sono dissolte per lasciare il posto a movimenti di pensiero ancora più vaghi e volatili. In un simile contesto risuona l’annuncio del profeta:  colui che deve venire “sarà egli stesso la pace”. Sarà dunque un altro dittatore? Un altro conquistatore? O una superstar mediatica?

Lo spazio dell’attesa

La profezia riapre uno spazio di attesa e di desiderio, che possiamo recuperare – anche se ne conosciamo già l’adempimento – per riconoscere che in Cristo essa si avvera in maniera inedita e sempre rinnovata e trasformante. Il Tempo di Avvento ci riporta ai tempi dell’incompiutezza, per smantellare le nostre pretese di possedere e ingabbiare Gesù. È lui la nostra pace, e noi lo sappiamo; ma dandolo per scontato, ce ne dimentichiamo. Noi non siamo ancora pienamente nella sua pace, ma rischiamo anche di non considerare la distanza che ci separa da lui e dal suo futuro avvento; dandola per scontata, dimentichiamo di essere ancora in cammino.

Un nascituro

Un nascituro, piccolo e fragile, nel grembo materno, porta la pace a casa di Elisabetta. Così si manifesta la misericordia divina. Gesù non viene da Elisabetta come una superstar, ma nascosto in Maria, nel segreto della maternità. Maria ed Elisabetta, nel loro incontro intimo e domestico, mostrano la via della vera pace, la pace fatta carne, che può invadere la quotidianità, che può entrare in ogni casa. Gesù è pace proprio nella sua piccolezza e vulnerabilità, che accende di un calore nascosto l’incontro di due donne, due future madri, anch’esse piccole e vulnerabili. Nel Vangelo di Luca, possiamo considerarla come la prima manifestazione di Gesù e degli effetti positivi del suo avvento nella carne, e potremmo dire che la pace messianica comincia nella casa di Elisabetta. La casa dove le due donne si incontrano, si scambiano il saluto, si riconoscono reciprocamente visitate dalla grazia divina, avvolte dallo Spirito, ciascuna secondo la sua vocazione particolare, è la prima tappa di quella “corsa della Parola” che si compie nel Vangelo e che prosegue nella storia della Chiesa, fino ai giorni nostri.

L’immagine della piccola città

Anche il profeta aveva invitato a non lasciarsi fuorviare dalle categorie troppo umane di grandezza e piccolezza. L’immagine di Betlemme, la piccola città, troppo piccola per stare tra le città di Giuda, ci guida a riconoscere la presenza del Regno, l’irruzione dello Spirito anche nei luoghi e nelle persone che, secondo il criterio mondano, giudichiamo irrilevanti. Due nascituri non ancora pienamente formati, due donne prive di particolari poteri, la casa di Elisabetta, la piccola città… il Dio dell’incarnazione si fa presente lì e non altrove.

Mettersi in viaggio

Là dove il Figlio di Dio ancor oggi si manifesta, siamo invitati a uscire, a metterci in viaggio. La televisione ci mostra immagini di profughi, di guerre, di persone che soffrono… possiamo guardare, possiamo commuoverci, ma non siamo ancora andati incontro a loro. Possiamo certamente percepire in quelle immagini una chiamata a smuoverci dall’indifferenza. Ma non ci siamo ancora smossi. Possiamo anche intuire che lì, in quelle persone, in chi li aiuta, c’è una certa presenza di Gesù, così come lui era presente nell’incontro tra Maria ed Elisabetta. Ma finché non ci si mette in viaggio, non si è ancora realizzato ciò che il Vangelo suggerisce, a imitazione della Madre di Gesù. Per mettersi in viaggio, occorrerà solitamente farsi incontro di persona, stare in una casa, stare in una piccola città, in una qualche periferia dimenticata dalla storia: lì può ripetersi l’incontro fraterno, lo scambio reciproco di carità e di grazia.

 

 

16 dicembre
III domenica di Avvento

In breve

Sofonia 3,14-17a: «Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico».

Il profeta annunzia il perdono dopo il tempo della dispersione: Dio viene come re e sposo nella città santa di Gerusalemme.

Salmo di Isaia 12,2-6: «Ecco, Dio è la mia salvezza: io avrò fiducia, non avrò timore».

Il Signore è in mezzo al suo popolo, che vive nella fiducia e nella speranza.

Filippesi 4,4-7: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti».

Ogni circostanza della vita può divenire occasione favorevole per sperimentare la vicinanza di Dio.

Luca 3,10-18: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno».

La predicazione del Battista apre strade nuove nella vita dei suoi interlocutori, pone un limite all’ingiustizia che è presente in loro, educa a rinnovare la propria vita per accogliere il dono di Dio.

 

Colui che disperde il nemico

Il profeta Sofonia invita Gerusalemme all’esultanza: il Signore “ha disperso il nemico”. L’oracolo del profeta aveva precise risonanze politico-militari: il piccolo regno di Giuda, con capitale Gerusalemme, doveva periodicamente confrontarsi con vicini molto più forti e bellicosi di lui. Ma il popolo saprà fidarsi dell’annuncio del profeta? O si lascerà spaventare  dal timore dei nemici? O forse si lascerà prendere dalla tentazione di scendere a patti con il nemico, di trarre vantaggi da un accordo con lui? Di fatto nella storia di Israele, anche al tempo di Gesù, si sono sempre verificate relazioni ambigue con gli avversari, il più delle volte non da parte di tutto il popolo, ma di una sola parte: un popolo diviso però è già in parte sconfitto…

Il nemico dentro

Israele dunque non ha soltanto nemici al di fuori di sé: il nemico più insidioso è al suo interno, è la paura che paralizza, impedendo di aderire pienamente a Dio, è l’insieme delle conseguenze del peccato, che grava sul destino del popolo (si parla anche di una “condanna revocata”, cf. Sof 3,15). Il nemico da fuori può colpire solo se il popolo dentro di sé è malato, lontano da Dio, diviso in sé stesso, avvelenato dalle tentazioni dell’ingiustizia.

La gioia delle nozze

L’immagine che esprime il rinnovamento di Sion è quella della gioia delle nozze: notiamo infatti all’inizio del brano che Sion è invitata a “gridare di gioia”; al termine Dio stesso esulterà per lei “con grida di gioia”; al cuore del brano sta la promessa: “ti rinnoverà con il suo amore”. Il re-sposo torna nella sua casa nuziale a Gerusalemme; ma Gerusalemme stessa è la sposa; essa è invitata a gioire per lui, egli danzerà di gioia per lei.

Verso la conversione

Con grande energia il Battista spinge alla conversione. Le folle accolgono la sua predicazione, compiono il segno del battesimo, iniziano un percorso di discernimento, che si apre con la domanda rivolta al profeta: «Che cosa dobbiamo fare?». Domanda ingenua: chi compie i primi passi nella conversione è simile a un bambino che non sa ancora camminare e ha bisogno di essere guidato. L’esplicita richiesta delle folle attiva la risposta del profeta, che presenta due livelli. Da un lato, Giovanni ha il coraggio di proporre una indicazione pratica. Non è possibile limitarsi a discorsi innocui. D’altra parte, le proposte di Giovanni hanno anche una valenza simbolica: non si tratta di precetti puntuali, ma di sentieri aperti. Chi comincia a percorrerli, non avrà mai finito di crescere nella loro comprensione e realizzazione.

Chiamati ad essere solidali

Il primo consiglio che viene dato, a tutti, è un richiamo alla giustizia: dare a chi non ha. La semplicità della formulazione rivela una profonda sapienza: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto”. Si suppone infatti una presa di coscienza della propria sovrabbondanza e dell’inutilità di una simile eccedenza, primo passaggio indispensabile sulla via del dono. Si suppone poi un contatto diretto tra il donatore e i riceventi. Esso non esclude ovviamente le numerose iniziative di solidarietà a distanza che si propongono nelle nostre comunità cristiane e che possono avere grande valore educativo; ma la massima crescita della carità si ha quando c’è un contatto diretto tra chi dà e chi riceve, tra chi dona e chi accoglie il dono: perché nell’atto stesso del contatto fraterno e solidale si costituisce una reciprocità, una mutualità di riconoscimento, si instaura una relazione. Là dove si stabilisce amicizia e reciprocità, non c’è più chi dà e chi riceve, ma entrambi gioiscono di poter camminare insieme, aiutandosi a vicenda.

Chiamati ad essere onesti

Ai pubblicani viene consigliato di “non esigere nulla di più”. Per loro, non si tratta dunque di rinunciare al lavoro; non si tratta di rifiutare l’Impero Romano con il suo sistema di tassazione (il problema delle tasse, effettivamente, è molto antico… forse una memoria storica più attiva ci aiuterebbe a ridimensionarlo). Si propone invece di porre un limite alla corruzione, per la quale la riscossione delle imposte diveniva fonte di arricchimento mafioso. Sono cambiati i tempi, sono cambiate le modalità tecniche della corruzione, è notevolmente cambiata la valuta e la finanza; il problema della corruzione resta, pressoché immutato dall’Impero Romano fino ad oggi. Quello che sembra un consiglio piuttosto limitato e scontato è in realtà estremamente impegnativo. Non esigere nulla di più significa raggiungere una notevole disciplina interiore, ed eliminare tutta una serie di relazioni ambigue, che a catena si innescano in un sistema corrotto.

Chiamati a sperimentare la gioia della semplicità

Ai soldati viene consigliato di rinunciare al saccheggio, per accontentarsi delle loro paghe. Solo in apparenza si tratta di una richiesta di poco conto. Nel mondo antico la prevaricazione e il saccheggio erano tacitamente previsti come integrazione ai proventi della vita militare. Si trattava di un costume diffuso dall’antichità e radicatosi nel tempo. Oggi l’istinto di saccheggio e appropriazione non combatte più nell’arena dello scontro militare. Si è spostato (come le guerre, del resto) in ambito economico. Proprio in ambito economico, oggi, sperimentiamo la tentazione a “volere di più”, a conquistare risorse con ogni mezzo, a monetizzare diritti talvolta inconsistenti. I riflessi si vedono nella situazione mondiale: il creato devastato dall’inquinamento, le società minate dalla corruzione morale, la politica in preda ai giochi di potere e alle trame della finanza. È urgente più che mai ritrovare il senso del limite: e con esso, la gioia. Chi è ricco non ha mai abbastanza. I poveri nel Signore hanno la possibilità di sperimentare la gioia della semplicità.

 

9 dicembre
II domenica di Avvento

In breve

Baruc 5,1-9: «Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui».

Alle vesti del lutto si sostituisce lo splendore della gloria di Dio. Al tempo dell’afflizione subentra il tempo della festa.

Salmo 125: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia».

L’esperienza dolorosa del fallimento si rivela una semina feconda, che genera un raccolto abbondante.

Filippesi 1,4-6.8-11: «La vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento».

Il momento puntuale della conversione non basta: diventa una svolta a partire dalla quale è possibile una crescita continua.

Luca 3,1-6: «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio».

L’annuncio profetico non ha per protagonista il profeta, né il popolo, né le comunità credenti che si mettono al servizio della Parola; l’annuncio profetico ha per protagonista Dio stesso che vuole offrire la salvezza ad ogni uomo.

Seconda domenica di Avvento e solennità dell’Immacolata

Possiamo considerare insieme alcuni grandi temi teologici che uniscono la seconda domenica di Avvento e la celebrazione dell’Immacolata. Siamo invitati a prendere atto dell’esperienza devastante del peccato e del percorso di riscatto offerto da Dio. Dopo l’amarezza del fallimento, la misericordia che apre nuove possibilità.

Il tempo dell’afflizione

Nella profezia di Baruc, rivolta a Gerusalemme, si parla del passaggio dal tempo dell’afflizione al tempo della rinascita. Se Dio è misericordioso, come è possibile che sia necessario il tempo della prova? Occorre considerare che il Dio misericordioso, che protegge l’orfano e la vedova, non può accettare la collusione con il male, che comporta necessariamente che i poveri vengano calpestati. L’esperienza storica dell’antico popolo di Israele mostra come, inevitabilmente, all’idolatria e al rifiuto del Dio unico si associ la disgregazione, la distruzione della solidarietà e della fraternità. Il tempo della prova dunque non serve tanto a Dio quanto a un popolo che si è talmente confuso con il peccato da non sopportare il contatto con la santità e la misericordia divina, e che quindi non è in grado di agire al suo interno secondo la giustizia propria di Dio.

Le vesti della gioia

L’immagine che esprime il passaggio, la fine del tempo dell’afflizione, è l’immagine dell’abito, o meglio, di un cambiamento d’abito: cade la veste del lutto, si può indossare “lo splendore della gloria che viene da Dio”. Spesso nella Bibbia il simbolismo del rivestimento indica una trasformazione dell’identità profonda, la piena assunzione della propria identità. Nella mentalità orientale, il corpo nudo non ha un particolare significato di verità e bellezza: ricordiamo ad esempio che nei primi secoli del cristianesimo, anche il Crocifisso è raffigurato vestito di una tunica, per attenuare lo scandalo della nudità e della pena infamante. L’abito, il diadema, il nome nuovo, fanno parte dell’immaginario sponsale e regale, che ritroveremo anche la prossima domenica. Infatti il padre buono, nella parabola dei due figli, appena il figlio minore ritorna, dà il comando di rivestirlo, di mettergli l’anello al dito (Lc 15,22): segno di una ritrovata identità di figlio, segno di una ritrovata dignità di padrone di casa.

L’iniziativa divina

L’immagine del rivestirsi di gloria mette in evidenza un’altra consapevolezza importante: se si “ristabilisce la sorte” (cf. Sal 125,1.4), ciò avviene solo perché Dio stesso interviene, suscitando il profeta, mandando il Figlio, inviando l’Apostolo, costituendo la sua Chiesa… Se il punto di partenza non è l’accoglienza del dono divino, si finirà per ricadere nella tragica spirale della ripetizione dei fallimenti del passato, senza possibilità di uscirne. La conversione e il battesimo predicati da Giovanni si collocano in una simile prospettiva (Lc 3,3-4).

La Parola al tempo di Tiberio Cesare

Durante l’impero di Tiberio, di cui vengono ricordati i subalterni che esercitano il potere sulla Terra Santa, si verifica un evento che ha la stessa importanza storica e che merita di essere annoverato tra gli annali: “la parola di Dio venne su Giovanni” (Lc 3,2). Tutto ciò che Giovanni dice e fa deriva dall’accoglienza della Parola, ed egli invita tutti a fare lo stesso. A partire da uno solo il contagio raggiunge tutti: non è una malattia, è un contagio che risana. Le vie tortuose cominciano a raddrizzarsi. La Parola non agisce da sola, in maniera magica e automatica: si innesta nella vita degli uomini e delle donne del popolo di Dio, e dall’interno li trasforma. Noi che abbiamo già accolto Gesù riconosciamo l’importanza di rifare continuamente lo stesso percorso di purificazione e accoglienza. Anche noi siamo tentati di ricadere nell’assuefazione di una fede dichiarata ma insignificante.

Il Signore accompagna il cammino del suo popolo

L’esperienza religiosa dell’antico popolo di Israele mostra che, se si resta nella prospettiva mondana, non si impara dai propri fallimenti. Si può imparare dagli errori solamente se si ha davanti una seconda possibilità, se si vede davanti una speranza. Si può imparare dagli errori solamente se si ha qualcuno al fianco, non solo per rimproverare, ma per aiutare a rialzarsi. Altrimenti si reagisce semplicemente pensando di essere colpiti da un destino crudele. Non si percepisce la propria parte di responsabilità.

Dio è colui che sta al fianco, anche nel momento in cui si sperimenta il fallimento dovuto al proprio egoismo e alle proprie scelte negative, non solo sbagliate, non solo mal calcolate, ma causate dalla malvagità. Il Battista nel Vangelo è il segno della benevolenza di Dio, che sta in mezzo al suo popolo e lo esorta a staccarsi dalla connivenza con l’ingiustizia e l’indifferenza. Anche Paolo, nella seconda lettura, si pone come colui che segue con affetto la crescita dell’“opera buona” cominciata da Dio in mezzo ai Filippesi (Fil 1,6).

Come il Battista, come l’Apostolo, come i Filippesi

Sono due atteggiamenti diversi quelli di chi ammonisce, rimprovera, condanna dall’alto, e di chi invece scende ad aiutare, ad accompagnare; come c’è differenza tra chi grida aiuto dalla riva o dalla spiaggia, e chi si tuffa per salvare chi annega. Solo in alcuni casi è necessario non essere coinvolti, tenere i piedi per terra, lanciare una corda da lontano, fino a tirare a riva. Più spesso accade che chi si vuole aiutare non abbia più alcuna energia e speranza di giungere in salvo, e non abbia neppure la forza residua di aggrapparsi alla corda. Serve qualcuno che lo sorregga, almeno fino a quando non sarà in grado di nuotare da solo. Le nostre comunità cristiane hanno bisogno di recuperare lo stesso atteggiamento e la stessa capacità di azione. Trovare le vie oggi per stare in mezzo agli uomini e donne del nostro tempo come una presenza positiva, abitando la stessa storia, gli stessi problemi, lasciandosi coinvolgere anche nelle sofferenze e tensioni; e nello stesso tempo mantenere il rimando a Dio, al suo Regno, che supera le prospettive puramente mondane. Giovanni realizza l’unione di condivisione e distacco abitando nel deserto: a fianco del suo popolo, in posizione accessibile, ma non coinvolto nella tentazione degli agi del benessere e nei compromessi del potere. Paolo è intimamente partecipe, spiritualmente presente nella comunità dei Filippesi, anche se li deve seguire da lontano, soprattutto nella preghiera (Fil 1,3.9). I Filippesi, a loro volta, pur vivendo e testimoniando il Vangelo nella propria città, sono con Paolo, fornendogli aiuto e sostegno a distanza per continuare il suo annuncio. Hanno imparato ad abitare il mondo, accompagnando gli uomini del loro tempo, e parallelamente a crescere “in conoscenza e in pieno discernimento”, in attesa della venuta di Cristo.

8 dicembre
Immacolata Concezione

In breve

Genesi 3,9-15.20: «Porrò inimicizia tra la tua stirpe e la stirpe della donna».

Una lotta senza fine, da secoli la lotta tra corruzione e purezza senza un’apparente soluzione. Ogni volta che viene sconfitto, il peccato si ripresenta.

Salmo 97: «Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie».

Efesini 1,3-6.11-12: «In Cristo Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo».

Luca 1,26-38: «Ecco concepirai un figlio e lo darai alla luce».

In Maria una vittoria piena, il sì definitivo alla parola divina, la totale fiducia nell’opera di Dio, un discepolato fino alla croce.

 

La purezza perduta

Il brano dal libro della Genesi mostra con un’acuta drammatizzazione letteraria l’esperienza della caduta e della scoperta del peccato; il ritaglio della pericope pone l’attenzione prevalente alle conseguenze, a ciò che accade dopo che il comandamento buono di Dio è stato ignorato.

Da parte di Dio, rimane la sollecitudine e la ricerca della creatura umana. Da parte dell’uomo, si instaura un nuovo atteggiamento di paura, determinato dalla scoperta della propria “nudità”, cioè la fragilità costitutiva. La prospettiva di “diventare come Dio” è andata completamente delusa. Però è subentrata la paura di Dio e anche la paura dell’altro.

In realtà Dio resta dalla parte dell’uomo. Il serpente tentatore riceve una parola di maledizione; il suo operato è apertamente condannato. Si constata tuttavia una frattura nella storia umana: lo sguardo rivolto al futuro vede una continua lotta, una tensione ininterrotta tra la discendenza del serpente e la discendenza della donna. La tradizione dei Padri definisce il brano “protovangelo”, vedendo in esso un annuncio del Messia.

L’inimicizia tra il serpente e la stirpe della donna

Può essere utile valutare con attenzione il valore esatto delle parole finali di Dio: non si proclama infatti una salvezza automatica e prodigiosa. Non è, in senso proprio, un annuncio di vittoria, come avviene per le profezie vere e proprie. Qui non si dice in anticipo l’esito della lotta. In senso primario, si annuncia che ci sarà “inimicizia” tra la stirpe del serpente e la stirpe della donna, e si fa intravvedere una lotta incerta: da una parte si tenta di schiacciare, dall’altra si cerca di mordere.

Già però nella proclamazione di inimicizia sta una importante risorsa. Prima ancora che annunciare la vittoria, è essenziale che sia riconosciuta la lotta. Ciò che è avvenuto nel giardino infatti si configurava come una sorta di “intesa” tra il serpente e la donna, che ha ceduto alla sua seduzione. La stessa seduzione è ancora attiva, e tutte le vicende umane, fino ai giorni nostri, lo mostrano. La tentazione più pericolosa è proprio la negazione della lotta, l’acquiescenza indifferente. Come se essere pienamente umani significhi automaticamente essere compromessi con il peccato.

Solo per la parola e l’iniziativa di Dio si può avere la percezione della piena incompatibilità tra noi e il male. Solo la misericordia di Dio mostra in che modo intendere una simile incompatibilità in maniera non distruttiva, salvando la relazione con la persona caduta nel peccato. Non siamo fatti per il male. Restiamo creature ostili alla malvagità, anche se sottoposte alla sua seduzione.

Senza fine?

Si pone quindi la domanda su quanto possa durare questa lotta. Uno sguardo al passato, al presente, al prossimo futuro, sembra condurre ad una desolante conclusione: il conflitto sarà senza fine. Ogni buona realizzazione sembra infrangersi contro i colpi di coda della corruzione. Dietro la facciata della pace, si agitano nuovi venti di guerra. Da dove è possibile ripartire? Che cosa possono fare i credenti, nella loro piccolezza, contro l’enormità del male? Proseguendo sulla stessa linea di interrogazione, non possiamo fare a meno di chiederci se davvero abbia valore la Parola di Dio. Si compiranno davvero le profezie di pace?

 L’ascolto integrale

Nel brano evangelico dell’Annunciazione, le parole dell’angelo sono una riproposizione sintetica delle profezie di salvezza; gli elementi essenziali che lo costituiscono sono la figliolanza che si genera da Maria, la relazione con Dio, il Regno. Sono esclusi dalla sintesi gli attributi militari, la rivalsa sul male, l’annuncio di abbondanza materiale e di ricchezza tangibile. Gli stessi elementi sono presenti nella seconda lettura, trasposti al livello dei credenti (Ef 1,3-6.11-12): si parla di una rinascita (benedizione spirituale), di una relazione di figliolanza con Dio (figli adottivi), del ricevere l’eredità (concetto biblicamente equivalente al Regno). L’evangelista e l’apostolo mostrano così il nucleo fondamentale della profezia; esso è già compiuto in Maria, già realizzato nella Chiesa. Si richiede però una piena adesione di fede: Maria si rivela l’ascoltatrice perfetta delle profezie, la sua fede si apre senza forzature all’iniziativa di Dio. La solennità dell’Immacolata intende appunto celebrare la potenza della sua fede, non contaminata dall’esperienza del peccato.

 Dalla vergogna alla fierezza

La nostra esperienza quotidiana, di persone segnate dal peccato, ci fa rendere conto che non siamo altrettanto docili come Maria. Per noi il passaggio diventa più complesso. La coscienza del male compiuto, la frustrazione della tentazione, la vergogna radicale di non corrispondere alle proprie aspettative segnano profondamente la coscienza; come già si diceva sopra, si cade facilmente nella tentazione più grande: quella di vedersi irrimediabilmente compromessi, inevitabilmente connaturati al male. Ciò è inevitabile se si resta in una prospettiva mondana. La solennità di oggi ci conduce a vedere un altro punto di vista: l’umanità, portatrice di salvezza, di Maria, di Gesù, di coloro che sono stati scelti “per essere santi e immacolati” di fronte a Dio “nella carità” (Ef 1,4). Da subito dunque possiamo fidarci delle profezie di pace, e abitare in esse: perché come si sono compiute in Maria, nei discepoli del Signore, nei Santi, così sono visibili, subito, anche in noi, pur nella lotta che perdura. Dalla vergogna del peccato si passa alla fierezza della grazia: la consapevolezza di essere figli amati da Dio, anche in mezzo alle prove della vita.

 Fino alla croce

Maria, pur con la sua fede limpida e sciolta, deve ugualmente compiere il percorso del discepolato, di una progressione nell’adesione al Figlio; e come Maria segue Gesù fino alla croce, anche noi siamo chiamati a ripercorrere le sue orme, fino al nostro modo di partecipare alla croce di Cristo. Se infatti è vero che in noi la trasfigurazione, il passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo è già realizzato, è anche vero che il mondo è ancora in attesa: non ha ancora pienamente accolto la misericordia; ancora si dibatte nei suoi progetti di violenza e sopraffazione. Portatori di pace in un mondo di guerra, i credenti non possono fare a meno di incontrare la croce, in una delle sue forme: sapremo restare saldi, come Maria restò ai piedi della croce del Figlio?

 Utopia e realtà

Non si sta proponendo un vano dolorismo. Né si sta riducendo il vangelo a utopia: anche se il pericolo esiste. Ci può essere confusione tra la nostra fantasia e l’ascolto profetico, tra la fede nella Parola divina, e l’ostinazione sui nostri sogni, più o meno coincidenti con quelli di Dio. Da Maria impariamo anche a discriminare tra l’utopia personale e l’autentico servizio a Dio: deve avvenire una gestazione, un portare nella propria carne i germogli della Parola. Il sì autentico è quotidiano, non velleitario: difficilmente diventa un proclama sbandierato. Il sì di Maria resta racchiuso a lungo nell’intimità della sua casa, custodito nel segreto del cuore; e non si interrompe con la nascita del figlio, ma prosegue seguendolo fino alla risurrezione, fino al costituirsi della Chiesa (Atti 1,12-14), quando l’azione riferita a Maria è essenzialmente quella di “perseverare nella preghiera”. Resteremo anche noi perseveranti con lei?

 

2 dicembre
I Domenica di Avvento

Geremia 33,14-16: «Farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra».
Dio ha compassione del suo popolo e di tutti i popoli; ma la sua azione di risanamento si dispiega nel tempo, per offrire possibilità di conversione. Come un seme che cresce, non come un diluvio che spazza via tutto.

Salmo 24: «Il Signore indica ai peccatori la via giusta».
Il salmo mostra che la benevolenza di Dio si rivolge anche a chi ha perso la strada, perché possa ritrovare  il percorso della vita.

1 Tessalonicesi 3,12-4,2: «Come già vi comportate».
Il punto di partenza dell’esortazione di Paolo è il riconoscimento dell’opera di Dio nella comunità dei credenti, e della loro risposta di fede. Non l’insoddisfazione per ciò che manca. Dal rendimento di grazie si apre la possibilità di una crescita, di un miglioramento, fino al compimento.

Luca 21,25-28.34-36: «La forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo.
La prospettiva dell’avvento di Cristo rivela la caducità di ogni realizzazione umana. Inquietante per chi vive in prospettiva mondana, fonte di consolazione per i credenti.

La forza inarrestabile del germoglio di giustizia
L’immagine poetica che nella prima lettura esprime il modo di agire di Dio è quella del germoglio: simbolo di una realtà che si sviluppa con dolcezza, senza distruzioni, senza sconvolgimenti, ma anche in maniera inarrestabile e potente. Non è raro vedere, nelle nostre città, marciapiedi sconvolti, sollevati dalle radici degli alberi a lato dei viali: ciò appare come un disturbo, quasi un attentato “orgoglioso” alla tranquilla, schiacciante cementificazione, e ci provoca a pensare che quell’albero che storce l’asfalto, che solleva lastre di marmo, è stato un tempo un piccolo germoglio; a suo modo ci ricorda l’umile forza del Regno di Dio e la inarrestabile espansione della sua giustizia.

Noi riconosciamo in Gesù quel germoglio: il tempo definitivo è arrivato in lui. La sua croce e risurrezione hanno inaugurato i tempi nuovi: ogni anno l’Avvento contribuisce a ricordarcelo. Rischiamo di essere soffocati dal peso delle cattive notizie, dei segnali di malvagità e corruzione, che suscitano emozioni e scandali passeggeri, e lasciano poi il retrogusto amaro della rassegnazione e della paura. In qualche modo il Vangelo sembra averlo previsto: “Gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra”. In realtà è una facile previsione: dove non c’è la speranza data da Cristo, dove non si è sorretti dall’umile attesa del suo Regno, emerge l’arroganza frettolosa del potere, o la timida remissività dell’impotenza. Dove non c’è la carità divina che fa riconoscere in ogni uomo un fratello, ci si divide tra manipolatori (pochi) e manipolati (tanti): gli uni con la frenesia di conquistare e mantenere il potere, gli altri con l’unico desiderio di dissipare tensioni e delusione, lasciandosi anestetizzare da una qualche forma di piacere o di stordimento.

Restituire la speranza
Gesù ridona speranza, mostra che si può uscire dalla gabbia che sembra inevitabile: “risollevatevi e alzate il capo”; “vegliate in ogni momento pregando”. Gesù non ha paura di dire parole forti, che impegnano pienamente la coscienza e la libertà. La mollezza non è misericordia. Chi lascia che le persone si disperdano negli affanni della vita, chi non offre gioia, ma ubriachezza, non è realmente compassionevole.

Così come sarebbe una pietà monca se Gesù non mostrasse la meta finale, l’avvento definitivo del suo Regno, identificato a partire dalla sua risurrezione. Dio sta realmente trasfigurando la storia dell’uomo, perché tutto possa entrare nel rinnovamento della grazia: ogni realtà devastata dal peccato del mondo può essere rigenerata dalla forza dello Spirito del Risorto.

Trasfigurati dal Signore che viene
I credenti dunque riconoscono l’opera di Dio nella storia: egli continuamente la trasforma, la trasfigura, alimenta in essa germogli di carità. Serve la fede per riconoscerlo: una fede celebrata assiduamente nella liturgia. La celebrazione liturgica trasforma lo sguardo e i sensi spirituali, abilitandoli a contemplare ciò che Dio realizza nella storia; abituandoli anche a contemplare in ogni evento della vita ciò che passa e ciò che resta. Le ricchezze passano; la carità vissuta, sia con elemosine concrete, sia con la donazione immateriale, resta per sempre di fronte a Dio. La bellezza passa, del piacere resta poco; le relazioni autentiche restano. La potenza di Dio non smette mai di produrre effetti permanenti, attraverso le realtà caduche della vita, facendo crescere in noi il dinamismo della grazia.

Uomini nuovi
Ma noi accogliamo la potenza di Dio nel modo in cui vuole manifestarsi? La seconda lettura parla di “crescere e sovrabbondare nell’amore”: si tratta della stessa realtà espressa dall’immagine del seme. Non è determinante la piccolezza iniziale: per la potenza dello Spirito, attraverso una lenta crescita, si arriva alla sovrabbondanza. Così è lo stile di Dio, nella vita del suo popolo (“il più piccolo di tutti i popoli della terra”, cf. Dt 7,7), nella vita dei profeti, di Gesù, e infine anche in noi. Paolo riconosce tutto ciò che è già secondo Cristo nella vita dei Tessalonicesi (“così già vi comportate”), ma rileva che potrà crescere ulteriormente (“possiate progredire ancora di più”). Il Tempo di Avvento che comincia ci invita a coltivare la speranza: non importa da dove partiamo; l’amore di Dio vuole farci avanzare fino alla sua stessa misura di amore.