9 dicembre
II domenica di Avvento

In breve

Baruc 5,1-9: «Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui».

Alle vesti del lutto si sostituisce lo splendore della gloria di Dio. Al tempo dell’afflizione subentra il tempo della festa.

Salmo 125: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia».

L’esperienza dolorosa del fallimento si rivela una semina feconda, che genera un raccolto abbondante.

Filippesi 1,4-6.8-11: «La vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento».

Il momento puntuale della conversione non basta: diventa una svolta a partire dalla quale è possibile una crescita continua.

Luca 3,1-6: «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio».

L’annuncio profetico non ha per protagonista il profeta, né il popolo, né le comunità credenti che si mettono al servizio della Parola; l’annuncio profetico ha per protagonista Dio stesso che vuole offrire la salvezza ad ogni uomo.

Seconda domenica di Avvento e solennità dell’Immacolata

Possiamo considerare insieme alcuni grandi temi teologici che uniscono la seconda domenica di Avvento e la celebrazione dell’Immacolata. Siamo invitati a prendere atto dell’esperienza devastante del peccato e del percorso di riscatto offerto da Dio. Dopo l’amarezza del fallimento, la misericordia che apre nuove possibilità.

Il tempo dell’afflizione

Nella profezia di Baruc, rivolta a Gerusalemme, si parla del passaggio dal tempo dell’afflizione al tempo della rinascita. Se Dio è misericordioso, come è possibile che sia necessario il tempo della prova? Occorre considerare che il Dio misericordioso, che protegge l’orfano e la vedova, non può accettare la collusione con il male, che comporta necessariamente che i poveri vengano calpestati. L’esperienza storica dell’antico popolo di Israele mostra come, inevitabilmente, all’idolatria e al rifiuto del Dio unico si associ la disgregazione, la distruzione della solidarietà e della fraternità. Il tempo della prova dunque non serve tanto a Dio quanto a un popolo che si è talmente confuso con il peccato da non sopportare il contatto con la santità e la misericordia divina, e che quindi non è in grado di agire al suo interno secondo la giustizia propria di Dio.

Le vesti della gioia

L’immagine che esprime il passaggio, la fine del tempo dell’afflizione, è l’immagine dell’abito, o meglio, di un cambiamento d’abito: cade la veste del lutto, si può indossare “lo splendore della gloria che viene da Dio”. Spesso nella Bibbia il simbolismo del rivestimento indica una trasformazione dell’identità profonda, la piena assunzione della propria identità. Nella mentalità orientale, il corpo nudo non ha un particolare significato di verità e bellezza: ricordiamo ad esempio che nei primi secoli del cristianesimo, anche il Crocifisso è raffigurato vestito di una tunica, per attenuare lo scandalo della nudità e della pena infamante. L’abito, il diadema, il nome nuovo, fanno parte dell’immaginario sponsale e regale, che ritroveremo anche la prossima domenica. Infatti il padre buono, nella parabola dei due figli, appena il figlio minore ritorna, dà il comando di rivestirlo, di mettergli l’anello al dito (Lc 15,22): segno di una ritrovata identità di figlio, segno di una ritrovata dignità di padrone di casa.

L’iniziativa divina

L’immagine del rivestirsi di gloria mette in evidenza un’altra consapevolezza importante: se si “ristabilisce la sorte” (cf. Sal 125,1.4), ciò avviene solo perché Dio stesso interviene, suscitando il profeta, mandando il Figlio, inviando l’Apostolo, costituendo la sua Chiesa… Se il punto di partenza non è l’accoglienza del dono divino, si finirà per ricadere nella tragica spirale della ripetizione dei fallimenti del passato, senza possibilità di uscirne. La conversione e il battesimo predicati da Giovanni si collocano in una simile prospettiva (Lc 3,3-4).

La Parola al tempo di Tiberio Cesare

Durante l’impero di Tiberio, di cui vengono ricordati i subalterni che esercitano il potere sulla Terra Santa, si verifica un evento che ha la stessa importanza storica e che merita di essere annoverato tra gli annali: “la parola di Dio venne su Giovanni” (Lc 3,2). Tutto ciò che Giovanni dice e fa deriva dall’accoglienza della Parola, ed egli invita tutti a fare lo stesso. A partire da uno solo il contagio raggiunge tutti: non è una malattia, è un contagio che risana. Le vie tortuose cominciano a raddrizzarsi. La Parola non agisce da sola, in maniera magica e automatica: si innesta nella vita degli uomini e delle donne del popolo di Dio, e dall’interno li trasforma. Noi che abbiamo già accolto Gesù riconosciamo l’importanza di rifare continuamente lo stesso percorso di purificazione e accoglienza. Anche noi siamo tentati di ricadere nell’assuefazione di una fede dichiarata ma insignificante.

Il Signore accompagna il cammino del suo popolo

L’esperienza religiosa dell’antico popolo di Israele mostra che, se si resta nella prospettiva mondana, non si impara dai propri fallimenti. Si può imparare dagli errori solamente se si ha davanti una seconda possibilità, se si vede davanti una speranza. Si può imparare dagli errori solamente se si ha qualcuno al fianco, non solo per rimproverare, ma per aiutare a rialzarsi. Altrimenti si reagisce semplicemente pensando di essere colpiti da un destino crudele. Non si percepisce la propria parte di responsabilità.

Dio è colui che sta al fianco, anche nel momento in cui si sperimenta il fallimento dovuto al proprio egoismo e alle proprie scelte negative, non solo sbagliate, non solo mal calcolate, ma causate dalla malvagità. Il Battista nel Vangelo è il segno della benevolenza di Dio, che sta in mezzo al suo popolo e lo esorta a staccarsi dalla connivenza con l’ingiustizia e l’indifferenza. Anche Paolo, nella seconda lettura, si pone come colui che segue con affetto la crescita dell’“opera buona” cominciata da Dio in mezzo ai Filippesi (Fil 1,6).

Come il Battista, come l’Apostolo, come i Filippesi

Sono due atteggiamenti diversi quelli di chi ammonisce, rimprovera, condanna dall’alto, e di chi invece scende ad aiutare, ad accompagnare; come c’è differenza tra chi grida aiuto dalla riva o dalla spiaggia, e chi si tuffa per salvare chi annega. Solo in alcuni casi è necessario non essere coinvolti, tenere i piedi per terra, lanciare una corda da lontano, fino a tirare a riva. Più spesso accade che chi si vuole aiutare non abbia più alcuna energia e speranza di giungere in salvo, e non abbia neppure la forza residua di aggrapparsi alla corda. Serve qualcuno che lo sorregga, almeno fino a quando non sarà in grado di nuotare da solo. Le nostre comunità cristiane hanno bisogno di recuperare lo stesso atteggiamento e la stessa capacità di azione. Trovare le vie oggi per stare in mezzo agli uomini e donne del nostro tempo come una presenza positiva, abitando la stessa storia, gli stessi problemi, lasciandosi coinvolgere anche nelle sofferenze e tensioni; e nello stesso tempo mantenere il rimando a Dio, al suo Regno, che supera le prospettive puramente mondane. Giovanni realizza l’unione di condivisione e distacco abitando nel deserto: a fianco del suo popolo, in posizione accessibile, ma non coinvolto nella tentazione degli agi del benessere e nei compromessi del potere. Paolo è intimamente partecipe, spiritualmente presente nella comunità dei Filippesi, anche se li deve seguire da lontano, soprattutto nella preghiera (Fil 1,3.9). I Filippesi, a loro volta, pur vivendo e testimoniando il Vangelo nella propria città, sono con Paolo, fornendogli aiuto e sostegno a distanza per continuare il suo annuncio. Hanno imparato ad abitare il mondo, accompagnando gli uomini del loro tempo, e parallelamente a crescere “in conoscenza e in pieno discernimento”, in attesa della venuta di Cristo.